L’Universale e il suo regista politico

 
Intervista a Federico Micali, regista, sceneggiatore e formatore
di Rita Vitrano

Questa intervista è stata da me raccolta nel 2016 e pubblicata nel quadrimestrale PerCorsi Bio Salute, che ho avuto il piacere di contribuire a creare insieme all’associazione PerCorsi.
La ripropongo in questo blog a testimonianza di una bella esperienza e della stima nei confronti di Federico Micali a cui rivolgo anche per questo il mio ringraziamento.

È un’occasione speciale quella di poter dare spazio a un “nostro” regista, che è riuscito nell’impresa di creare un bel film con tanta passione e poca economia, in cui riesce a bilanciare fatti e atmosfere, ragione e cuore, con un’impronta molto personale che resta costantemente legata alla dimensione sociale, e uno sguardo leggero ma profondo, dietro la telecamera e allo stesso tempo presente in quella platea, alla Firenze becera in anni che hanno lasciato il segno nel cambiamento della città.
Questa intervista vuole raccontare non solo un film, ma un incontro, una storia nella storia.
Per chi se l’è perduto sarà facile rimediare e di recensioni ne sono state scritte tante. Qui abbiamo cercato di conoscere lo spirito del film e il suo travaglio, ma anche il percorso, intenso ma rafforzato dalla semplicità, di Federico Micali e del suo fare cinema.

Potresti raccontarci la storia “vera” di questo cinema per andare a scoprire poi cosa ti ha spinto a realizzare un film che racconta soprattutto gli anni settanta, quando tu eri appena un bambino?
Sì. La narrazione del film si appoggia sulla forza di questo luogo di Firenze, nato negli anni sessanta al Pignone, nel quartiere popolare di San Frediano, come cinema popolare di terza o quarta visione, per la gente della zona, che lo frequentava con lo stesso spirito con cui andava al bar o alle case del popolo, che amava Bud Spencer e i film western con John Wayne.
Il film veniva vissuto dagli spettatori sulla propria pelle, con commenti a voce alta, spesso anche spinti, che suscitavano boati di risate e urla.
All’inizio degli anni settanta il gestore della sala capì che quel target di pubblico non gli rendeva sufficienti guadagni, mentre emergeva un nuovo pubblico legato ai movimenti “sessantottini”, che in quel tipo di sala non trovava il cinema che gli corrispondeva, e non aveva neanche luoghi pubblici di ritrovo. Decise allora di mettere in programmazione film che lui noleggiava a bassissimo costo perché usciti da tempo o considerati scarti di magazzino, ma che in realtà erano pellicole di un certo rilievo, quelle che oggi chiameremmo film d’essai. Ogni giorno veniva dato un film diverso, anche questa fu una novità che attirava sempre più pubblico, compresi studenti e intellettuali. Quest’operazione, mossa da ragioni più commerciali che culturali, andò a colmare un vuoto e finì col cambiare profondamente l’Universale che inaspettatamente divenne il cinema in cui lo spettatore più “intellettuale” e quello più tradizionalmente “popolare” andarono a mischiarsi.
Ne venne fuori una contaminazione particolare che aprì il quartiere ai film più colti di Fellini, Kurosava, Tarkovskij, Antonioni, Bertolucci, mantenendo ovviamente i toni consueti sempre un po’ beceri, e allo stesso tempo trasmise alla platea più razionale e colta quello spirito ironico e di piazza. Lo stesso film proiettato una sera diversa diventava un’altra cosa proprio grazie ai commenti della gente in sala.
Arrivò anche la musica, altra novità importante, new wave, punk, venivano proiettati filmati di concerti registrati altrimenti impossibili da vedere, film musicali come The Wall dei Pink Floyd, e questo trasformava l’Universale in sala concerto e luogo di formazione in area musicale a quel tempo anche culturalmente rivoluzionaria.
Uno dei “gridi” più caratteristici di quella platea era diventato abburracciugagniene, immancabile durante le scene di sesso, che prendeva origine da Ultimo Tango a Parigi, e quello diventò anche il titolo del primo concerto dei Litfiba. Quel ritrovo era diventato un vero luogo cult per Firenze.
Era rimasto un cinema libero, si poteva fumare, girava l’hashish, ci si passava i fiaschi di vino così come le canne, una sorta di centro sociale ante litteram, un punto di ritrovo intorno al quale venivano organizzate manifestazioni, riunioni politiche, diventando uno specchio di quello che succedeva in città, negli aspetti buoni e meno buoni.
La diffusione dell’eroina, insieme alla forte repressione, è stato uno dei principali segnali della fine degli anni ‘70 e di tutta la loro forza.
Gli Ottanta a Firenze furono però degli anni fantastici, fatti di musica nuova, di locali, tendenze e cultura. E tutto questo spesso aveva avuto le proprie radici proprio in quel crogiuolo di esperienze che era stato l’Universale, dove oramai rimanevano solo i film ad avere un forte spessore culturale, mentre piano piano prendeva il sopravvento un divertimento privo di altri contenuti, la sala rimarrà un cinema unico ancora per molti anni ma privo di quella potenza che aveva avuto.
Io l’ho conosciuto -una volta sola- alla fine di quegli anni, nel 1989, l’anno della chiusura. Era veramente divertente, ma probabilmente un simulacro di quello che era stato. Ne ho sempre sentito parlare, anche negli anni successivi.
Quando ho iniziato a fare documentari l’Universale era sempre presente nei racconti di chi l’aveva vissuto e gli riconosceva un ruolo particolare in quella fase della società fiorentina. In qualche modo sentivo un legame con la mia storia personale.
Quando mi proposero di fare un documentario, realizzai con entusiasmo Cinema Universale d’Essai, presentato al Festival dei Popoli del 2009.
Ma già cullavo l’idea di potermi staccare dai racconti concreti e poter far vedere l’Universale come una sorta di teatro degli eventi, forte specchio della realtà di quel tempo, anche dal punto di vista narrativo. Volevo fare un film su quegli anni, la società, la politica, quello che succedeva a cavallo fra l’inizio del movimento sessantottino e il suo declino intorno al 1982.
Da lì la scrittura del soggetto insieme a Cosimo Calamini e Serena Mannelli e poi la sceneggiatura creata sempre con Cosimo e con Heidrun Schleef, firma importante della filmografia italiana. Quindi abbiamo iniziato la ricerca dei finanziamenti necessari allo sviluppo e alla produzione. Nel 2014 finalmente abbiamo potuto, in quattro settimane, girare il film.
Alcuni fatti documentati hanno l’urgenza di una storia e quella dell’Universale è una bella storia che valeva la pena raccontare, con tanti livelli da sviluppare, vicende diverse cresciute in un ambiente forte.

Tu nasci come documentarista?
Sì, uscito dalla Scuola di Cinema Anna Magnani di Prato, il mio primo lavoro è stato nel 2001 Genova senza risposte, realizzato durante il G8 di Genova: l’esigenza era raccontare quello che avevamo visto. Noi eravamo rimasti shockati dalla violenza a cui avevamo assistito durante quei giorni, mentre giornali e tv raccontavano una storia diversa.
Ero andato lì all’interno di Indymedia un collettivo indipendente molto autorevole in quegli anni, a livello internazionale, che si sviluppava intorno al principio della libera condivisione del sapere usando il proprio sito web indymedia.org mentre nascevano i primi sistemi operativi open source. Alla scrittura erano affiancati i video.
Le mie riprese come quelle di altri colleghi venivano quindi condivise. Era tantissimo materiale, sufficiente a coprire una bella parte di quanto successo in quei giorni, e sull’idea della libera circolazione e del no profit potevamo montare un prodotto completo e fedele alla realtà che usasse i lavori di tutti.
Questa esperienza mi ha fatto diventare un documentarista.
Un anno dopo girando al Social Forum Firenze Città Aperta, che andò molto bene anche fuori dai confini cittadini, mi resi conto che il racconto dei fatti così come avvengono o hanno una forte spinta anche emotiva, come successo a Genova, oppure hanno bisogno di un veicolo, cioè di una storia. Ad esempio, realizzammo quel filmato usando le bande musicali di strada che si trovavano al Social Forum per raccontarlo.
Il film documentario 99 Amaranto su Livorno girato nel 2007 sul tema del calcio e della politica prende in prestito la storia di un calciatore per narrare “la pancia” di quella città.
Ciò che differisce un documentario di inchiesta, legato più a un linguaggio giornalistico televisivo, da quello cinematografico, quindi di creazione, basato su fatti realmente accaduti è proprio quell’urgenza che certi fatti hanno di essere raccontati, e questa narrazione ha bisogno di una storia che la percorra.

Ne L’Universale a far scorrere il racconto è proprio la vita e il modo dei vivere dei protagonisti…
Questo film è un racconto sociale, e non a caso è raccontato da tre ragazzi:
Tommaso, che è il figlio del proiezionista che, come succedeva spesso, vive in una casa all’interno del cinema, Marcello e Alice. Crescono in quell’ambiente, dai tempi dei giochi al vivere da giovani adulti il passaggio del cinema a sala d’essai.
Tommaso in particolare assorbe tutto quello che gli accade intorno, Marcello è più portatore della parte politica, con una deriva più di movimento e di contestazione che lo porterà poi alle BR, mentre Alice quella di costume, entra e esce portando i suoi “cambi costume”, prima da figlia dei fiori, poi il punk, poi l’eroina. Loro sono “i figli del cinema”, Tommaso ne è in qualche modo l’alter ego, l’Universale si rispecchia nella sua vita, e quando cambia, Tommaso ne esce.

Quello che ti interessa è inserire i percorsi di storie umane in una visione della realtà trasversalmente la politica?
Penso a me come a un regista politico, perché credo che l’impegno politico sia necessario e voglio che passi nei miei lavori.
A volte in maniera più forte, come in Genova senza risposte oppure i cortometraggi girati proprio sul campo in Palestina o fra il popolo Saharawi. Altre volte il tono è più mediato se l’argomento non è specificamente “di denuncia”, pur restando legato a tematiche con forte valenza sociale.
Nel caso de L’Universale il timbro politico non sta solo nella cronaca di quegli anni, ma anche nei valori rappresentati da quella sala cinematografica.
Infatti nell’89, esaurita completamente la scia post-sessantottina, anche questo cinema venne chiuso. Riaprì nel 2000 trasformato in discoteca. Oggi è oggetto di speculazione edilizia. La sua fine all’epoca inaugurò una nuova fase che vide la dismissione anche di molte altre sale del centro, e ancora oggi come pezzo di territorio continua a essere specchio di ciò che accade in città, attraverso la trasformazione in appartamenti, piccole abitazioni con affitti alti. Non testimonia più cultura ma sempre aspetti di ciò che vive Firenze, anche oggi.
La sua parabola resta legata al mutamento culturale del cinema, con le piccole sale chiuse e assorbite dalle multisale.
Però non è più la stessa cosa, il cinema visto in una multisala manca di quel rapporto con il pubblico che la sala tradizionale favoriva, è un luogo-non luogo, con una qualità tecnologica certamente più alta, ma non esiste più il contatto con la gente, gli spettatori non si ritrovano più lì, alla fine del film escono dall’uscita di sicurezza direttamente al parcheggio.
Faceva parte della serata fermarsi alla fine del film davanti alle locandine orizzontali in cui rivedevi immagini di scene, le commentavi, si discuteva, spesso incontravi le “solite persone” del quartiere che frequentavano quel cinema.
In un momento in cui si sta facendo strada una riscoperta della monosala, come il cinema America occupato a Roma, o le piccole sale che puntano su una programmazione più d’autore, legata ai desideri del pubblico, l’idea di fare un film su una sala cinematografica per me voleva anche sottolineare quanto il Cinema abbia bisogno di un luogo per essere vissuto pienamente e creare relazione con lo spettatore.
Questo è uno dei punti su cui ho voluto insistere di più durante le presentazioni.
Per fortuna il film ha circolato molto in questa tipologia di sala che lo ha adottato e mi ha invitato a incontrare il pubblico. Per me è stato molto bello frequentare un’Italia ricca di realtà di questo genere, quelle che vengono chiamate Arthouse.
Non credo ci siano temi che possano venir considerati apolitici, niente è apolitico.
Può essere apartitico, non connotato dai colori di tessera, ma a rischio che il termine “politico” possa essere messo in relazione ai danni che la politica in senso lato ha prodotto, il suo valore necessita di un recupero. Potrei dire di intenderlo nel concetto brechtiano senza però voler apparire intellettuale snob, ma semplicemente mi sembra il termine che meglio descrive il principio di partecipazione, di non indifferenza.
È importante riconoscere al cinema un ruolo non solo di intrattenimento puro, come spesso viene proposto, per evadere dalla realtà. Per me il cinema deve guardare al pubblico, è importante che non sia una sorta di elucubrazione mentale del regista che fa un film esclusivamente per se stesso, senza preoccuparsi di arrivare alla gente.

Questo lavoro ricade nella categoria “commedia”, giusto?
Sì e qui potrebbe nascere il problema di parlare di un genere residuale che comprende lavori di registi come Vanzina, ma anche quelli di Monicelli e Virzì, che stimo molto.
La commedia in Italia ha una storia importantissima e sono contento di definire il mio film “commedia” benché abbia in sé anche aspetti tragici, tristi, arriva qualche cazzotto nello stomaco, e così deve essere perché è un racconto e c’è la vita. Venendo dal documentario il senso della realtà lo sento molto, e non ho rinunciato nel film a intrecciarlo a momenti più “leggeri”.
La mia ricerca mi porta sempre ad affondare i piedi nel reale.

Non sei un nostalgico, come viene da chiedersi a proposito de L’Universale?
No. Questa è una cosa che viene fuori spesso, credo che chi ha vissuto quegli anni può avere nostalgia, o provare nostalgia nel vedere quella cassa, quel bar, quel mondo, o forse, semplicemente nostalgia di anni più giovani… io non li ho vissuti quei tempi, non volevo un film nostalgico, anzi, se qualcosa doveva passare volevo fosse la forza di quel quartiere, l’importanza di quella “strada” all’epoca.
In tanti mi chiedono se sarebbe possibile, se sarebbe bello riavere l’Universale oggi. Per me sarebbe impossibile ora, è cambiato tutto, è cambiata l’interazione sociale, anche la possibilità di fumarsi una canna lì. Non funzionerebbe, è anacronistico.

Possiamo aspettarci che il tuo lavoro continui su questo filone di narrazione realistica che non perde i colori delle emozioni?
Credo proprio di sì. In questo momento sto lavorando ad un romanzo “Le querce non fanno limoni“ di Cosimo Calamini che mi piacerebbe potesse diventare il mio prossimo film. La logline è: “in un piccolo paese costruisco una grande moschea”, vagamente ispirata alla storia di Colle Val d’Elsa.

Mi piace andare a sentire le discussioni nelle case del popolo, fra la gente, e osservare questo forte impatto che ha avuto l’immigrazione anche su parti di popolazioni che ideologicamente fino ad oggi si erano dette aperte e libere ma ora, che si vedono intaccare il loro orticello, si chiudono e fanno trasparire la contraddizione di continuare a definirsi storicamente di sinistra mentre difendono il loro territorio da ciò che vivono come un’invasione di stranieri, con una cultura che li disturba in qualche modo.
Trovo interessante come Cosimo abbia saputo porre il lettore in un asse che si sposta continuamente, oscillando senza ritrovarsi né ad accettare la decisione imposta dalle poltrone in alto del partito indipendentemente dalla volontà dei cittadini, né a condividere una posizione che rischia di prendere i toni del razzismo. E questo è il quotidiano, non tanto a livello di analisi sociale ma come scontro tra ideologia e realtà vissuto dalle persone nella vita di tutti i giorni.
Sono un curioso, fondamentalmente un documentarista è un curioso che assorbe quello che gli capita intorno.
Ho un cassetto pieno di idee che vengono dal quotidiano. Poi alcune escono fuori da questo cassetto e a quel punto hanno bisogno della fase successiva dello sviluppo, dell’andare a fare ricerche, per poi arrivare a quella che è la linea del racconto, scrivere quella che sta diventando la mia storia, supportata da indagini anche sociologiche.

Qual è stata la parte più difficile da affrontare e quella più sorprendente?
La cosa più difficile è stata sicuramente l’aspetto economico: un sacco di personaggi e quindi tanti attori, girare in epoche diverse perciò tanti costumi, trucco e parrucco, ma anche scene. Questo si traduce in costi, con un’economia che limitava i tempi in solo quattro settimane di riprese.
Gli unici finanziamenti a disposizione sono stati quelli pubblici che sappiamo come negli ultimi anni siano stati ridotti drasticamente, e infatti con la casa di produzione, di cui anch’io sono socio, siamo stati anche sul punto di rinunciare perché i rischi erano davvero forti. A farci andare avanti è stata la motivazione, credevo nel film e davanti ad alcuni ostacoli avevo sempre la possibilità di adattare la sceneggiatura per cercare soluzioni nuove, lavorare la produzione con flessibilità.
Sono convinto che non sei mai perduto se hai una buona storia da raccontare.
Ho chiesto aiuto alla creatività e alla conoscenza del soggetto per supplire a certi limiti economici. E poi siamo stati fortunati perché non ci sono stati incidenti né guasti tecnici, nessuno si è ammalato.
Tutti hanno creduto nel progetto, anche attori bravi come Claudio Bigagli, che hanno partecipato a condizioni amichevoli perché volevano esserci.
Sono molto grato a tutti coloro insieme ai quali ho potuto realizzare questo film, gli attori, i macchinisti, gli allestitori… non ho una considerazione gerarchica di chi è dentro al film, alla fine delle riprese io stesso mi metto a smontare.
La parte più gratificante è il supporto della città che ha partecipato attivamente, dalla rete, a Facebook, alle comparse reclutate in strada. Quando il film è uscito mi aspettavo una reazione estremamente più critica da Firenze, ciascuno vive un’esperienza a modo proprio e se è un altro a raccontarla è facile che ti deluda.
La ricostruzione in certi punti non poteva essere del tutto fedele, l’edificio non c’è più ed è stato riprodotto a Pontassieve. La narrazione attraversa un ventennio ma non era possibile soffermarsi ad approfondire. Il rischio che ci venisse contestata una sorta di superficialità, malgrado l’attenzione con cui abbiamo lavorato, c’era. Invece è andata bene, c’è stato un passaparola che fa capire come Firenze ha accolto il film.
Credo che abbia funzionato la storia dei tre amici, intrecciata con quella di altri personaggi minori, il proiezionista, la cassiera, la maschera, il pubblico stesso, che pone l’Universale come sfondo, la forza del racconto stacca l’attenzione dai particolari più razionali. A tutto questo aggiungo come aspetto positivo la distribuzione. Sapevamo che un film indipendente e opera prima avrebbe potuto andare a sbattere contro le difficoltà della distribuzione, che è un mercato chiuso dove entrano i film di cassetta, hollywoodiani, o per quanto riguarda gli italiani quelli di grandi autori oppure con attori noti, volti televisivi. I film che una volta realizzati non escono, non arrivano in sala, sono il 50 per cento. La nostra è una distribuzione indipendente ma ce l’ha fatta, supportata da un box office che è andato molto bene su Firenze creando interesse anche a livello nazionale. Non era per niente un risultato scontato. Sono molto soddisfatto di tutte queste cose che significano aver portato fino in fondo il progetto, dopo anni di lavoro e sforzi, e con successo, anche di critica.

E dell’ipertrofia intellettiva, che sembra dilagare nel modo di affrontare la vita, che ci dici?
Il regista è la pancia e la testa di un film, la pancia è nel suo sogno. Anche quello a occhi aperti in cui continuo a comporre scene, a vedere per immagini, a usare la fantasia, la creazione mentre delineo e poi scrivo il soggetto. La testa mi aiuta a costruire il film come opera destinata a essere condivisa con il pubblico, necessita di seguire leggi di strutturazione, di scrittura, sviluppo dei personaggi, perché ciò che la mia pancia prova e elabora possa arrivare allo spettatore. La dimensione più interiore resterebbe onirica ma incompresa all’esterno e io invece amo fare un cinema che parla al pubblico.
Se penso a questa mia esperienza mi viene da dire che la testa del regista è direttamente proporzionale a quanto il film è indipendente, più lo è, maggiore deve essere l’impegno del regista, che non potendo disporre di risorse limitate deve trovare continue soluzioni, deve reinventare ciò che ha immaginato per realizzarlo in modi attuabili. Ne L’Universale ci sono scene che mi sarebbe piaciuto ambientare in modo più articolato e suggestivo, ma non era possibile in termini pratici ossia economici. Allora è stata la testa a mediare con la pancia e inventarsi tecniche realizzative adeguate senza indebolire il film.
Nel mio film la pancia è senz’altro nella platea, soprattutto di fronte all’intellettualismo di Kurosawa, Antonioni, ecc… i commenti dissacravano con l’ironia quei tratti simbolici dai quali si sentivano lontani, mentre evidenziavano la partecipazione ai film western. L’Universale sta dalla parte opposta dell’ipertrofia intellettiva.
Penso che in qualsiasi arte quando la visione personale dell’autore resta chiusa nella sua soggettività c’è forte il rischio di esprimerla attraverso un intelletto che riesce a parlare solo a una nicchia ristretta e l’opera rimane criptica e incompresa dalla maggior parte del pubblico.
[…]Tommaso: se vi svelassi sto segreto sarebbe come fare un torto all’anarchia, alla fantasia, all’epica, insomma a tutto quello che questo cinema ha rappresentato. Sarebbe come bruciare uno di quei rari posti in cui alla testa ogni tanto gli fa voglia di andarsi a fare un giro, così… per riposarsi un po’, per fantasticare […]

 

 

 

 

 

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