Persone che si occupano di altre persone. Intervista a Piero Ferrucci di Rita Vitrano

 

Lei è uno psicoterapeuta, e già da qualche anno si dedica anche alla formazione nel campo del counseling, crede in questa professione. Cosa apprezza del counseling?
Credo molto nelle possibilità del counseling. Lo stesso Assagioli, caposcuola del nostro modello psicos-intetico, credeva nella possibilità di vari tipi di intervento con diverse tipologie di persone.
Accanto alla psicoterapia possono coesistere altri tipi di interazione.
Cosa ci trovo io di buono nel counseling? Naturalmente il dialogo, che è scambio fra due persone: uno scambio che usando determinati accorgimenti può produrre un’alchimia benefica a entrambi, così che  il cliente esca dall’incontro con le idee più chiare, con maggiore serenità, avendo una maggiore comprensione della propria vita e coscienza dei suoi scopi.
Nella psicosintesi abbiamo molte tecniche, con i vantaggi e anche gli svantaggi che questo comporta, perché spesso le tecniche non sono usate come dovrebbero – per aiutare noi stessi e gli altri – ma diventano dei gadget. Il pericolo è che allontanino una persona dall’altra. Soprattutto nel counseling noi insistiamo sul dialogo, sul saper stare con la persona, ed essere capaci di ascoltare, e poi anche di poterle parlare con un atteggiamento di rispetto e accettazione. Il dialogo è l’asse centrale del counseling. Si possono fare via via gli interventi opportuni, ora di natura più passiva – di ascolto, accoglienza, chiarificazione – ora invece più attiva, di domanda, di stimolo a un cambiamento di prospettiva, di umorismo anche (mai di sarcasmo), di allargamento del discorso, di esplorazione delle alternative che una situazione ci offre, di offerta della propria reazione personale, anche di leggera provocazione qualche volta, di riassunto e bilancio del cammino fatto finora, tutti interventi, questi più attivi, che richiedono una certa dose di esperienza. Questi sono elementi che si possono trovare anche in altri rapporti, solo che il counselor lo fa professionalmente e quindi deve averci le mani in pasta, e aver studiato in se stesso e negli altri che cos’è la relazione.
È la relazione che determina tutto. Quindi, indipendentemente dalla scuola a cui si appartiene, è certamente meglio una buona relazione che non una buona tecnica o delle buone idee. Quando propongo a qualcuno di rivolgersi a un counselor, penso alle qualità della persona a cui faccio l’invio più che alla sua scuola, che ha un’importanza relativamente secondaria.
La scuola ha il suo valore di aggregazione e di rappresentatività, ma l’importante è come mi gioco quei 50-60 minuti. Credo che il counseling possa essere definito come l’essenza di una buona relazione, quindi quando c’è quella si mette in moto tutto ciò che ci interessa.

Nei suoi libri sono sempre presenti le risorse positive della vita e dell’essere umano, la bellezza, l’arte, la natura, le qualità dell’anima che l’uomo vive in sé e condivide con gli altri. Senza mai stare nella diversità etichettante della patologia, il bisogno di trattare la malattia. Se penso a “La forza della gentilezza” oppure “La bellezza e l’anima” li rileggo e li propongo trovandoci fondamentalmente il counseling.
È vero, lo scopo di quei libri è di raggiungere chiunque voglia crescere, e anche coloro che lavorano nel campo delle professioni di aiuto. I temi sono “ovvi” ma fondamentali, e spesso dimenticati.
Prendiamo per esempio la bellezza. Molti di noi hanno un deficit di bellezza, che viene ignorato. È un po’ come la sete per le persone anziane: a un certo punto non percepiscono più chiaramente la sensazione della sete, e quindi possono essere assetate senza saperlo. Così molti di noi sono assetati di bellezza senza saperlo: questo deficit si manifesta come un senso di confusione, di incertezza, di mancanza di significato… Basta introdurre un po’ più di bellezza nella vita di una persona per aiutarla a diventare diversa, cambia la sua maniera di pensare, di stare in rapporto con gli altri, di vedere la propria realtà su questo pianeta.
È simile ciò che accade con la gentilezza. È anche sperimentato scientificamente, e documentato che la bellezza ci rende più gentili, più prosociali, dal momento che dà serenità e ci aiuta a dismettere i nostri ruoli. Per gentilezza non intendo semplicemente la cortesia, piuttosto intendo il cuore, il rispetto, l’empatia, la presenza, tutte qualità che appartengono al counseling. Gentilezza e bellezza sono delle risorse. Se vogliamo sono a nostra disposizione, se vogliamo possiamo usarle, solo che molto spesso ce ne dimentichiamo. E sono entrambe degli elementi biologici, fanno parte del nostro passato ancestrale, infatti li troviamo anche negli animali.
La gentilezza non è un artefatto. È un comportamento prosociale, fa parte dell’uomo, insieme alla crudeltà e alla ferocia. In questi decenni sta cambiando radicalmente la nostra visione di chi è l’essere umano, e questo influenza tutte le professioni d’aiuto e quindi anche il counseling.

Molti psicoterapeuti promuovono parallelamente il loro profilo e la loro attività di counselor. È chiaro che alla base permane la comunanza della relazione d’aiuto, poi strumenti e modalità si differenziano per la profondità dell’intervento, abbiamo già parlato di cura, terapia, ecc… La domanda è: nella necessità di stare nella sua congruenza, come può lo psicoterapeuta mettere da parte il suo “essere psicoterapeuta” quando si offre in un processo di counseling?
Credo che uno psicoterapeuta possa essere capace di fare counseling. Naturalmente lo farà come è capace di farlo. Può darsi che un counselor ben formato e preparato possa fare tanti interventi molto meglio dello psicoterapeuta. Non è neanche questione di profondità, perché credo che la profondità non sia monopolio di nessuna professione. Il counseling può essere molto profondo. Ci sono persone profonde, ci sono persone più superficiali.
Nella domanda mi riferivo alla profondità più “operativa” di alcuni strumenti, diagnostici, terapeutici e così via, che non appartengono al processo della relazione di counseling
Quando ci si avventura nel descrivere le differenze fra psicoterapia e counseling si va su un campo minato. Si creano dei tabù, si sollevano polemiche, si fanno separazioni, si evoca il corporativismo. È anche una questione politica.

Prima lei accennava al fatto che, da psicoterapeuta, le capita di suggerire un percorso di counseling e quindi inviare un cliente a un counselor
Certamente, è una cosa che faccio. Questo è possibile anche nel senso inverso.

Per il counselor è basilare e deontologico valutare l’opportunità di inviare un cliente al professionista terapeuta che possa prendere in carico una situazione che lo esige, nel modo più appropriato e competente. Meno frequente che a un counselor arrivi un cliente da parte di uno psicoterapeuta.
Spiegherei questo abbastanza facilmente. Firenze, mi pare, è la città con il più grande numero di psicologi. L’Italia è il paese con il maggior numero di psicologi in tutta Europa. C’è quindi una grande competizione. In una società che oltretutto in questo periodo è anche in crisi economica e che non ha chiaro il ruolo dello psicoterapeuta, magari lo conosce solo dai telefilm americani, men che meno quello del counselor, il terapeuta si tiene i pazienti per sé.
Naturalmente io credo che in generale più si pensa con una mentalità competitiva, di parte, aggressiva, e meno si è capaci poi di fare un buon lavoro. Proprio dal punto di vista psicologico sarebbe bene che tutti ci occupassimo meno delle rivalità, più del benessere delle persone che arrivano da noi.
Allora credo che si instaurerebbe una situazione di abbondanza perché si farebbe tutti un buon servizio e quindi ci sarebbero molte più persone interessate al nostro lavoro. Un professionista che non lavora bene crea un danno alle persone, ma anche a tutta la categoria a cui appartiene.

C’è un messaggio particolare che vorrebbe trasmettere a chi si interessa, è in formazione o già pratica professionalmente il counseling?
Ci dobbiamo sentire tutti, counselor, terapeuti, direttori spirituali, insegnanti, e via dicendo, persone che si occupano di altre persone, e le aiutano nel loro cammino. Questo gruppo è molto ampio, e va al di là delle corporazioni, delle epoche e delle culture. Credo valga la pena pensare al counseling, non come un’etichetta professionale, ma come la rappresentazione odierna di una relazione che esiste da sempre nell’umanità. Se ci sentiamo parte di questo, il nostro lavoro può esserne avvantaggiato, perché sappiamo che non siamo soli e che non facciamo altro che svolgere una funzione umana antichissima che non è stata inventata o codificata l’altro ieri, ma che fa parte del nostro essere più profondo, perfino della nostra biologia.

Piero Ferrucci è filosofo, insegna presso la SIPT di Firenze
www.pieroferrucci.it

immagine di Tabitha Turner

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