scritto da Rita Vitrano

Scienza e tecnologia hanno superato confini che fino a ieri solo l’immaginazione di visionari scrittori di fantascienza sapeva narrarci. Sono disponibili scaffali interi di libri divulgativi che parlano di neuroscienze, funzionamento neuronale, biologia delle emozioni, epigenetica.

La medicina progredisce per curare un organismo che è sollecitato a manifestare sintomi anche nuovi. Questi mutamenti non si fermano alla cultura, alle macchine sempre più efficienti, alla comunicazione sociale. Cambia il nostro corpo, l’uso delle mani, gli organi di senso, la capacità di adattamento allo stress, la fantasia e i desideri; cambiano mente e cuore, il come stiamo con noi stessi, come ci relazioniamo con le altre persone, come amiamo e pensiamo all’amore.
Sono nuovi i parametri di “misura”, le distanze, il tempo, la percezione dell’età, le aspettative e l’Uomo deve ricalibrare il proprio senso di “grandezza”, la sua posizione in un universo che più che la sua casa sembra una meta da inseguire.

La società va perdendo la capacità del fermarsi a “stare” nello scorrere della vita senza la necessità di un piano efficiente per ogni cosa; dall’altra parte mette a punto tecniche, terapie e strumenti ecologici per compensare e ritrovare. Nel quotidiano sembra allargarsi la ferita della settorializzazione, di un individualismo sempre più sulla difensiva, e nei momenti liberi si medita, si pratica Qi gong o yoga, alla ricerca di un’oasi in cui per qualche minuto sia possibile “deporre le ansie”.

Lavorare su di sé, dare attenzione alle dinamiche dei nostri atteggiamenti, costruire un ponte più visibile fra la nostra storia e il presente sono diventate possibilità più aperte, se si pensa solo e un paio di decenni fa, conoscenze non riservate esclusivamente a una nicchia più intellettuale o professionale. Si è ampliato il nostro lessico e tante opportunità di ridurre la distanza con altre tradizioni e saperi di popoli lontani. Salute e alimentazione stanno riconquistando terreni con valori più rispettosi, spesso malgrado le pericolose strategie del sistema economico; le medicine naturali hanno abbandonato l’etichetta di “alternative”, oggi vengono spesso “integrate”, e sono decisamente più numerosi i pazienti che le scelgono e le ricerche che le contemplano.

Ma stiamo riuscendo a conciliare tanti stimoli? stiamo imparando a selezionare quelli più fertili e nutrienti?

Accade di credere di sapere già molto di noi stessi, di arroccarci davanti a interpretazioni mentali su ciò che ci succede, fino a identificarci, talvolta, con quel particolare fotogramma, dimenticandoci che niente è statico. A volte si impara davvero ad ascoltare il proprio intuito, altre volte semplicemente si può finire col sostituire una risposta nuova a una vecchia, in pratica ci si nasconde.

La paura di scendere quello scalino nella profondità interiore e provare più sofferenza, scoprire parti di noi non amabili, induce a sviluppare un controllo rigido che ci fa stare sempre all’erta. Con il tempo possono cronicizzarsi stati di tensione che si riflettono in disagi e che limitano le relazioni.
Il rischio è di inglobare nozioni e ideologie che, se non metabolizzate e fatte individualmente proprie, possano generare equivoci, false conoscenze, persino facili alibi.

Il conoscere presuppone un’elaborazione sincera e vissuta del sapere nozionistico, servono l’esperienza, il corpo, gli stimoli emozionali, il vivere il momento in cui si è, per avvicinarsi a un cambiamento autentico, capace di rivelarsi a mano a mano negli atteggiamenti verso il mondo.

Fermare nella nostra testa tanti pensieri, che non hanno modo di integrarsi con le altre parti, non può trasformare la nostra vita, ci potrebbe far coincidere con filosofie intelligenti e affascinanti, e alla fine limitarci e generare altra separatezza.
Quando siamo rinchiusi nella nostra mente non riusciamo neanche a comunicare, nella relazione con l’altro la nostra presenza non arriva, non viene percepita.
Se il nostro intelletto consuma una grande quantità di energia nel voler corrispondere a un ideale, spesso inarrivabile perché non reale e esterno alla nostra natura, viene a crearsi tensione, eccesso e allo stesso tempo anche un deficit in quelle parti che restano trascurate, e noi soffriamo.
Non siamo diventati più consapevoli, semplicemente abbiamo barattato la forma di una nostra confusa idea di identità con una più sofisticata. Non abbiamo rispettato la nostra complessità, abbiamo reso più complicato viverla.
“Sapere” con la testa che quella certa abitudine o quel tale comportamento è alla fonte di una dinamica che ci crea disagio è certamente un buon inizio, viene riconosciuto ciò che si mette in atto, ma ha bisogno di evolvere per portarci oltre il processo cognitivo e poter essere inserito nella relazione con tutto il resto. Confrontarsi implacabilmente con un’immagine ideale di se stessi e del mondo fa vivere nel costante giudizio, nella mancanza, in un doloroso senso di inadeguatezza.

Quando si attua un mutamento, “sappiamo” che qualcosa va lasciato per far posto al nuovo; ma qui si può rintracciare una delle fatiche più dure, ossia fermarsi a trasformare, amalgamare come si può gli elementi presenti in quel passaggio, dal vecchio al nuovo, senza escludere o rinnegare, aderire al nostalgico rimpianto o accanirsi verso un futuro idealizzato. Si fanno avanti le contraddizioni e attraversarle è necessario per rendersi conto di dove si è arrivati, per porre le domande utili a poggiare i piedi sul punto di maggior equilibrio.
Se la trasformazione non comprende questo processo, quelle stesse contraddizioni assumono invece un peso emotivamente insostenibile, contribuiscono a creare difese corazzate che rafforzano la separazione di cui già soffrivamo. Ci procurano forti apprensioni che possono farci vivere in uno stato continuativo di ansia invasiva, a volte sentita come divorante.
La testa ha assunto una posizione di egemonia e induce a considerare ciò in cui si identifica come sapere, intelligenza, cultura, qualificandoli in qualche modo superiore al corpo.

La mente non fa sentire che se stessa, e induce ingannevolmente a una falsa difesa dalle emozioni, dal dolore e dall’esperienza di attraversarli positivamente, capacità unicamente dell’essere umano che così trova risorse, fiducia in se stesso, e ricerca di senso nella sua esistenza.

La facoltà del pensare è un movimento che non ristagna dentro il guscio cranico, è espressione di un continuo processo psichico attraverso il quale l’essere umano prende coscienza di sé e può confrontarsi nella relazione con altro da sé.

Un indifferenziato ingorgo di cognizioni, di “lo so” ostacola la crescita. Noi pensiamo con la nostra psiche, con l’immaginazione, con il linguaggio.
Le emozioni non elaborate, rabbia, delusione, impotenza, attaccamenti si annidano fra i pensieri, creano in noi una vera e propria ostinazione a volere che sia il mondo ad attuare i cambiamenti desiderati, che sia l’esterno a fornire soluzioni di diritto. La vita si arena nell’attesa che un genitore ci ricompensi, che un ex partner ci risarcisca, che qualcuno ripari quella certa ingiustizia.
È essenziale scegliere la vita attraverso il presente attenuando via via il chiasso dell’ego. Abbiamo bisogno di mantenere presente e più sgombro possibile uno spazio interiore capace di accogliere i movimenti del nostro essere.

Ci fa paura la profondità del contatto con ciò che abbiamo dentro, ci manca la fiducia di poterlo attraversare e piano piano riconquistare territori da tempo ipotecati da copioni emotivi del passato, da condizionamenti mentali. Abbiamo ferite e dolori esistenziali anche intensi e serve sapienza e gentilezza nell’allungare lo sguardo interno sino ad arrivare a dare loro un tocco di libertà.
Dare voce ai nostri pensieri con parole che ci descrivano, dare un nome alle emozioni che ci animano libera i ragionamenti chiusi nella testa. Spostando lo sguardo è più chiara la visione della loro forma, in quel momento di esperienza reale trovano un posto non solo mentale e diventa più semplice lasciarli entrare nel circolo della vita.
Non aiuta aggiungere parole, “capire di più”, al contrario il lavoro presuppone un togliere, svuotarsi, andare verso l’essenzialità.

Aiuta non esser soli, cercare un sostegno appropriato, un sguardo accettante, la presenza fisica di un’altra persona in uno spazio protetto che raffiguri simbolicamente le qualità del proprio esistere, una relazione che rappresenti il luogo e il calore del ritrovarsi, sperimentando in carne e ossa ciò che si è, la storia di cui si è figli che crescono verso l’autonomia, la voglia rafforzata dal presente di tornare al proprio cammino guardando avanti. Dalla testa il pensiero trova la strada del sentire e va alla ricerca del coraggio per fare un passo avanti, è un bel momento quando ci si lascia sorprendere dal sentire la propria coscienza allargarsi. Ma è necessario liberare, accorgersi che quel film che ruota continuamente in testa è girato da telecamere a circuito chiuso. Non è realtà e neanche illusione.
Stiamo parlando di una relazione non tecnicamente ma autenticamente “terapeutica”, che sia essa stessa il luogo di quel ritrovarsi.
Nello spazio ricreato torna la possibilità di riconoscere come veri i propri valori, senza vuoti e paure da cui proteggersi. Diventa naturale aderire alla nostra responsabilità di essere ciò che siamo, domandarci cosa farne di questo nostro individuale percorso esistenziale.

Ci sono energie invisibili che ricreano costantemente l’universo, misteri e intelligenze che non siamo certo noi a guidare, tutto è animato da un “respiro” che risponde ad altre leggi di Natura. C’è un ordine inconscio a cui siamo legati, fili sottili invisibili, valori e bisogni più evoluti. Tendere ad essi è un compito esistenziale che ci fa evolvere, progredire nella ricerca di significati più vicini, e non in contrapposizione, alla saggezza della natura. Tecnologia e intelligenze artificiali sono strumenti preziosi che è l’uomo a immaginare e creare perché ne è capace, e gli servono a facilitare la sua ricerca fondamentalmente di se stesso.
Tutti viviamo queste difficoltà e non è facile uscire da un sistema di vivere così radicante.

Il tema dell’ego, del controllo, della paura di vivere la nostra umanità e finitezza, che imprigiona nella testa l’enormità di potenziale e di abilità di cui siamo dotati, è in fondo legato all’innata ricerca di senso dell’essere umano, a comprendere i confini fra la solitudine e l’incontro con l’altro, al bisogno di relazionarsi con la propria libertà. E, fra le contraddizioni più difficili da integrare, l’ansia che può scaturire dalla libertà è fra i paradossi più impegnativi e affascinanti. È un’ansia diversa però, aperta a diventare stimolo creativo. Ci spinge a tendere verso un gentile superamento dei nostri limiti, ad allargare i nostri confini.

Al centro di quel paradosso si potrebbe intercettare la fonte da cui esprimere la propria volontà di essere ciò che si è e lasciar perdere tutto il resto.

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