È forte la percezione in me di quanto i miei giochi abbiano lasciato delle impronte profonde nelle mie possibilità di diventare l’adulta di oggi. Un ponte fra ciò che già allora si affacciava alla vita come lieve traccia del percorso su cui era apparsa e ciò che è stata l’esperienza tutta della mia infanzia.
Nel tempo, il giocare è cambiato ma continuo a richiamare quell’allegria che ho potuto conoscere perché, intrecciata alle ferite, possa ancora in qualche momento toccarmi il cuore.
Possa aiutarmi a scoprire ancora nuovi significati.
Ogni atto creativo, scrivere, dipingere, incontrarci e magari amarci, venire al mondo e forse anche lasciarlo… tutto è un gioco, la metafora più articolata del vivere. Se soffermarsi alla banalità dell’apparenza oppure cercare la propria storia nelle pieghe dei giochi vissuti, e spesso rivissuti più volte anche in età diverse, è una necessità individuale. Ma non nega che stiamo parlando di come stiamo al mondo, come ci relazioniamo con gli altri, con il piacere e la sofferenza, quali regole accettiamo con più facilità e quali ci mettono alla prova.
Che sia scriverne o leggerne è facile sentirsi portati a ricordi e atmosfere dell’infanzia, via via che la nostra età ci trasforma e l’identità diviene ancora altro.
Se riacchiappiamo le sensazioni che sì, da bambini sentivamo come “felicità” nell’eccitazione del gioco, soprattutto insieme ai compagni, ci possiamo domandare cosa ne sia stato di quello, cosa oggi riviviamo ancora…
Sintonizzarci con quel mondo, interno e anche sociale, ci trasporta in modo naturale nel campo della nostra autobiografia, della memoria, della storia del nostro IO, capitoli scritti, compresi alcuni brani a volte copiati, e capitoli a venire.
Raccogliendo le idee via via che scrivevo, mi è apparso chiaro come potrei raffigurare forme e sensibilità del mio mondo interiore semplicemente raccontando gli aneddoti e le immagini ancora pieni di colore della mia infanzia, che eppure non ha avuto solo momenti gioiosi.
E ora che, se non giocassi a mascherarli i miei capelli apparirebbero grigi, mi chiedo se in quei momenti di felicità per gioco, non risieda ancora una forza e un aiuto per trovare un mio equilibrio nell’affrontare le cose della vita.
Nella mia infanzia siciliana ho vissuto un regalo speciale: nella vita di tutti i giorni erano presenti attraverso i racconti i miei due nonni mai conosciuti e altri parenti, chi non c’era più restava come parte della famiglia. E, a quel tempo, la festa dei morti non solo era una festa davvero, con menù speciale, ma quella mattina di sole novembrino, magicamente sempre molto caldo, al risveglio i nonni defunti mi avrebbero fatto trovare, tramite i miei genitori, giocattoli in regalo!
Tutta la mattinata la maggior parte del paese -un grande paese- si incontrava al cimitero, parenti e amici si riunivano con le mani piene di fiori.
Ho un ricordo molto vivido di me che correvo insieme ai miei cugini, giocavo a nascondino dietro le tombe, anche nei più angusti angoli fra le grandi cappelle di famiglia, e sentivo eccitazione, non paura.
Poi diventammo abbastanza grandicelli da osservare che avveniva qualcosa di strano quel giorno in cui portavamo il gioco in un luogo di solenne cupezza, mentre i genitori ci permettevano di urlare, correre, ridere come mai ci avrebbero permesso di fare in un’altra situazione. Le regole della “buona educazione” quella mattina saltavano alla grande! Restavamo bambini ben educati in quella libertà, felici di un gioco più grande di noi e di tutti.
Mi chiedo quanto quelle singole giornate, feste in continuità con il quotidiano, mi abbiano lasciato una forza particolare che mi porto dentro nel vivere e nell’approcciarmi a ogni esperienza che abbia i suoi inizi e le sue fini.
In realtà, da adulta sono venuta a conoscenza di cose taciute e di una persona che davvero era stata volutamente dimenticata ed estromessa dalla famiglia. Questo è quello che succede “da grandi”, e ci si confronta con le contraddizioni dei genitori.
Ma oramai avevo in me abbastanza strumenti per cercare un senso mio in questa parte un po’ grigia, conservavo l’energia e la motivazione per mobilitarmi in prima persona a includere il familiare escluso nella mia biografia. Quel punto di fragilità rivelava anche una forza.
E siccome la Vita è davvero una grande magia, con leggi e linguaggio infiniti ma coerenti, in tutta sincerità racconterò anche di aver scoperto che questa persona aveva avuto in vita un negozio di giocattoli…!Per questo posso dire di sentirmi come ogni giorno divento anche grazie a ciò che ne faccio di certi momenti di bambina, attenta a percepire come posso che il mio divenire è un movimento poco serioso ma tanto magico.
E questo è molto presente nel mio lavoro con l’Altro, qualsiasi percorso di relazione d’aiuto accompagni, qualsiasi sia il tema individuale che la persona porti, qualsiasi si riveli l’esperienza in un gioco di gruppo.
Una cosa che amo della mia professione è che si sviluppa in uno spazio di relazione, perciò di vita, ma lontano da logiche e pratiche cliniche. Perciò non è mio compito fare diagnosi e cercare corrispondenze predefinite e quando qualche conoscenza dai miei studi emerge, la uso solo per restare rispettosamente coerente al mio orientarmi. Nessuna etichetta, nessuna prescrizione.
La fantasia, il seguire le connessioni, l’uso delle metafore e delle immagini, l’inventiva creativa nel restare presenti ma senza troppo peso, sono davvero fra le più grandi risorse umane e necessariamente gli strumenti fondanti nel mio accompagnamento di aiuto con l’Altro.
Ho partecipato di recente a un training di formazione di Somatic Experiencing® molto bello: noi partecipanti/allievi, di diverse età e differenti background eravamo circa 40, insieme a una decina di formatori fra insegnanti e assistenti. La cosa più grande che ci accomunava tutti era il piacere di essere lì, per sei molto impegnativi giorni di apprendimento, esercitazioni, confronti.
Quell’hotel è stato il nostro setting di gioco dal momento dell’arrivo ai saluti. Tutti emozionati e disponibili a metterci ancora in discussione, tutti curiosi e contenti di continuare a cercare e di integrare nuovi visioni personali e conoscenze professionali.
Questo tipo di lavoro necessita di quelle qualità interiori, e ci vuole tanto sano giocare con se stessi per crescerci.
Quanti “buoni terapeuti” hanno bisogno di “pazienti con patologie, con disfunzionalità da classificare” per sentirsi bravi?! Se poi qualcosa si allontana dai loro schemi si accorgono che hanno smesso di alimentare la loro capacità creativa. E questa diventa la cosa migliore che possa capitare, perché proprio da quel punto ridiventa possibile riconnettersi con la propria vitalità e tornare a essere parte trasformativa e aperta nelle dinamiche relazionali.
Il gioco del “non fare” libera anche l’Altro da tantissimi pesi, giudizi, aspettative, ansie.
Una piccola esperienza, fra i primi inviti che ho imparato a proporre con spirito ludico alle persone che arrivano da me, è quella di esprimersi in prima persona: è facile sperimentare con semplicità quelle piccole differenze che ci accadono dentro se sostituiamo a espressioni come “uno crede sempre che…”, “tutti pensano che…”, “ci si aspetta che…” il pronunciarsi partendo da “IO” e declinando i propri pensieri, le credenze, le ideologie senza ricorrere a forme impersonali.
Sopraggiunge senza grande sforzo un’attenzione a distinguere se stessi da luoghi comuni, automatismi abitudinari, concetti astratti. Si apre piano piano uno spazio nel sentire, in cui l’individualità può aprirsi meglio alla propria espressione.
Il setting, sia negli incontri individuali sia con i gruppi, è sempre un micro-mondo, si toccano i confini, si liberano modalità espressive e interazioni, ci si confronta con il tempo, con le regole. È presente ogni riflesso della nostra umanità.
È il luogo della sperimentazione attenta, in cui anche quando si scappa, qualcosa resta.
È anche il luogo, “il campo” in cui si esplora con più meraviglia che le cose accadono e creano un Insieme, indipendentemente da funzioni volontarie, identificazioni, difese di antico retaggio.
Intimo e liberatorio come gli spazi in cui, corpo e anima, i bambini trasformano il “come se” in “io ci sono”.
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